Un foglio lamierato è una porta e si squaderna
come manoscritto apparecchiato alla decifrazione.
I confini vanno disegnati le notti dopo le mattine,
tracciati con gesso, fatti calpestare da passi sulla scena.
Un limite non è limite se il freddo non lo misura.
Le mura sono carta da zucchero, lasciano traspirare
i singulti invisibili delle vite altrui, i soprassalti,
i terrori, gli effluvi. La danza riscalda lo spazio tra
monade e luce, tra albero e zinco, tra legna e brace.
Il purgatorio è una sostanza fitta come manna.
Le case sono bambole assembrate su e giù.
Le case sono bambole senz’occhi, che d’un tratto
hanno perso la carne rosaspina. Gli inguini, i polsi,
i visi allisciati, le gambe, le pieghe del volto
sono abitati dal morbo della rapprensione.
La baracca copre e discopre, offende e difende:
l’amianto infetta e punge, il cemento pesa, è amico,
è un’anima di muratura presa tra peste e aria,
e nel mezzo una stanza, da cui non passa il mondo,
e non ha finestre, e nemmeno tocca il cielo.
Amianto bianco, fibra stellare, non sente
il peso del calore che abrade, si tende come lana,
lana di salamandra, non muore e non si strappa.
La sua purezza è la nostra corruzione,
il suo fuoco inestinguibile è vulcano che svapora.
La bambina lì dentro, l’amianto la battezza, la consacra,
la veste e le dà forma, la chiude in una cellula.
L’amianto la rischiara al posto della luna,
è fiammifero e fosfene, è culla di polietilene.
Al buio i suoi occhi brillano quasi fossero crisoliti.